IL TRIBUNALE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza.
    Il  contrasto  creatosi  tra  la  giurisprudenza  della  Corte  di
 cassazione a sezioni unite (sentenza  6  luglio-23  ottobre  1990)  e
 quella    della   Corte   costituzionale   (sentenza   n.   247/1989)
 sull'interpretazione della norma penale di cui all'art. 4, n.7, della
 legge  n.  516/1982, impone a questo tribunale il dovere di sollevare
 nuovamente la questione di legittimita'  costituzionale  della  norma
 stessa.
   In  altra  occasione,  la  Corte  costituzionale  aveva  dichiarato
 manifestamente infondata la stessa questione, sul  rilievo  che  essa
 era  stata  decisa  e  che  la stessa Corte di cassazione, esprimendo
 contrario avviso rispetto ad  una  sua  precedente  decisione,  aveva
 accolto   l'indirizzo  delineato  dalla  Corte  costituzionale  nella
 menzionata  sentenza  (v.  ordinanza  n.  279/1990).  Senonche',   la
 questione  viene  adesso  nuovamente  aperta  in tutti i suo risvolti
 dalla decisione citata delle sezioni unite della Cassazione,  che  ha
 fornito   un'interpretazione   ben  diversa  da  quella  della  Corte
 costituzionale e di quelle decisioni della sezione terza che si erano
 allineate  a  quella  del  supremo  giudice  costituzionale. Infatti,
 secondo le sezioni unite non sono necessari ulteriori  elementi,  per
 l'integrazione  della  menzionata  fattispecie  penale,  oltre quelli
 richiesti  palesemente  dalla  norma,  ossia  la  semplice  omissione
 d'indicazione  di componenti positivi di reddito in taluno degli atti
 indicati nell'art. 4, n. 7. Non e' richiesto, insomma, il  c.d.  quid
 pluris,   che,  viceversa,  richiede  la  Corte  costituzionale  come
 condicio sine qua non per  la  conformita'  dell'impugnata  norma  ai
 principi costituzionali.
    Tutto questo genera un fortissimo disagio in chi istituzionalmente
 deve applicare la legge:  una  norma  penale,  che  peraltro  prevede
 pesanti sanzioni, non puo' non essere chiara e non puo' ammettere una
 duplicita' di interpretazioni diametralmente opposte, entrambe  -  si
 badi  -  egualmente  plausibili  alla  stregua  dei  normali  criteri
 ermeneutici. Se il legislatore non e'  stato  chiaro,  se,  in  altri
 termini,  non  si  sa  bene  quale  sia  la  condotta  che  ha inteso
 sanzionare penalmente, non si scorge la ragione per la quale la norma
 (da  tutti giudicata d'infelicissima formulazione) debba continuare a
 vivere  nell'ordinamento.  essa  puo'  generare  soltanto  (come   ha
 generato) deplorevoli disparita' di trattamento, nascenti dalle varie
 interpretazioni  che   ne   sono   state   date:   esigere   o   meno
 quell'ulteriore   elemento   richiesto  dalla  Corte  costituzionale,
 comporta in moltissimi casi, rispettivamente, l'assoluzione oppure la
 condanna   dell'imputato.  E'  stato  detto  che  il  nostro  sistema
 tributario e' uno dei piu' caotici e meno chiari che si conoscano; se
 cio'  e'  vero,  la  norma  di  cui  all'art. 4, n. 7, della legge n.
 516/1982 potrebbe esserne il simbolo piu' perverso.
    Sta  di fatto, comunque, che l'attuale e piu' autorevole indirizzo
 della  giurisprudenza  della  giurisdizione  penale  ordinaria,  che,
 secondo  una  felicissima  espressione  della  Corte  costituzionale,
 costitusce il  "diritto  vivente",  e'  nel  senso  di  escludere  la
 necessita'  di quel "quid pluris", che invece la Corte costituzionale
 richiede perche' la norma venga ritenuta conforme dalla Costituzione.
 E  poiche',  a  parere  di  questo tribunale, l'interpretazione delle
 sezioni unite e' tutt'altro che priva di fondamento, seguirne  adesso
 l'indirizzo  potrebbe comportare di fatto l'applicazione di una norma
 che   nelle   presenti   condizioni    potrebbe    essere    ritenuta
 incostituzionale.  Cio'  non  sembra  consentito  al giudice, che, in
 questi casi, ha il  dovere  di  rimettere  la  questione  alla  Corte
 costituzionale.
    Ora,  poiche'  nel  caso  di  specie  la questione e' rilevante in
 quanto, a seconda dell'interpretazione seguita,  l'imputato  potrebbe
 essere  assolto  oppure  condannato, dato che gli viene contestato di
 avere dissimulato componenti positivi di reddito,  con  una  condotta
 meramente  omissiva, per importi tali da alterare in misura rilevante
 il risultato della dichiarazione, il procedimento va  sospeso  e  gli
 atti vanno rimessi alla Corte costituzionale perche' decida se l'art.
 4, n. 7, citato, cosi'  come  oggi  viene  interpretato  dalla  Corte
 suprema   di   cassazione,   sia   conforme   o   meno   ai  principi
 costituzionali, segnatamente a quello che  assicura  una  parita'  di
 trattamento  nelle  medesime  situazioni  (art.  3), nonche' a quello
 della punibilita' in base ad una legge che delinei in modo preciso la
 condotta punibile (art. 25, secondo comma, della Costituzione).